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Son passati vent’anni. Allora tutta la nostra famiglia, la nobile famiglia dei Maxu, la più ricca del villaggio, era composta da me, elegante studente di giurisprudenza, da mio padre più elegante ancora di me benchè contasse quarant’anni suonati, aristocratico cavaliere di montagna che viveva cacciando aquile e cinghiali nei nostri immensi boschi d’elci e di roveri, e da una cugina orfana di cui egli era tutore, ed io naturalmente innamorato.
Però non l’avevo sempre amata: mi ricordo anzi che (in da bambino provavo una sorda antipatia per essa, forse perchè ogni volta che venivamo a lite, lei grande e forte — eravamo quasi della stessa età — mi picchiava cordialmente come l’ultima delle monelle, minacciandomi sempre di vendicarsi meglio fra qualche anno.
Venuta poi in casa nostra, dopo morta sua madre, io avevo trascorso persino notti insonni roso dal crepacuore di vedermi sempre accanto quella piccola furia così viziata e maleducata: di vederla signora e padrona della mia casa, accarezzata da mio padre di cui io, io solo, dovevo esser l’idolo... Dal canto suo poi Gabriella o Gella, come la chiamavano, mi professava pochissimo amore. Accortasi però della mia cattiva accoglienza cambiò completamente di carattere e, cessato il suo dolore per la madre, non riprese la vita antica, ma si chiuse a mio ri-