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dolorose, — erano tornati e stavano seduti intorno al focolare.

La mamma di Gabina, Simona, giovane, bella, di quella strana bellezza araba che si incontra in molte donne sarde, e che ricorda i saraceni dominatori e devastatori dell’isola nel IX e X secolo, rimaneva un po’ nell’ombra, seduta per terra, le mani incrociate sulle ginocchia, scalza e in maniche di camicia, larghe maniche all’orientale, strette sui polsi e increspate negli omeri eleganti.

Mai Gabina aveva visto sua madre così pallida e cupa, sua madre che pure era sempre smorta e triste in viso, mai aveva visto i suoi occhi neri brillare stranamente così.

Sotto il fazzoletto nero calato sulla fronte il volto di Simona assumeva tinte cadaveriche, i lineamenti finissimi e immobili stirati da una tetra e spaventosa serietà, gli occhi illuminati da un riflesso di odio e di angoscia.

Ma chi più attrasse l’attenzione di Gabina, e la costrinse a rimanersene fuori, fu la vista di un estraneo, seduto anch’esso vicino al focolare, legato solidamente con una corda di pelo alla vecchia sedia che ornava da sola la cucina, una sedia grossolana che restava sempre in un angolo, non toccata da nessuno, ma spesso guardata cupamente da Simona.

Gabina non aveva mai, prima d’allora veduto il volto dell’estraneo che pure indossava il co-