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All’alba Jorgi Preda, appostato dietro una fratta, a un quarto d’ora di distanza dalla cantoniera, armato con l’archibugio di zio Concafrisca, attendeva il passaggio dell’ingegnere per tirargli un’archibugiata numero uno. Arrosa gli aveva detto, la sera prima, che i due signori avrebbero proseguito l’indomani verso l’altra cantoniera, dunque dovevano passare di là, e egli aspettava... con una feroce decisione nel volto orrendamente scomposto, e negli occhi più tetri e annuvolati del solito. Nell’alba fresca di aprile un magico incantamento di vaghe luminosità e di profumi allagava la campagna; l’orizzonte del bosco sfumava nell’oriente color d’oro; e nelle macchie lucenti di rugiada le agasselle cantavano gaiamente — ma Jorgi Preda badava a tutt’altro che alla idilliaca poesia mattutina.
Dalla sua fratta dominava un gran tratto di stradale e vedeva il ponte sotto il quale scorreva un nastro d’acqua smorta, assorbita da alti giunchi e dall’asfodello che cominciava a fiorire.
E ripensava ai sogni fatti tante volte, seduto sull’orlo del ponte, alle canzoni cantate a voce altissima, per esser intese da Nania in lontananza, accompagnate dal susurro dei soveri e dal tintinnio delle greggie che ogni notte venivano ad abbeverarsi in quel sito, giacchè l’altro ruscello