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— Restano lì a dormire?
— Sì.
Ad un tratto Jorgj piantò la piccina e se ne andò, cupo in viso.
— Tiligherta, — gli gridò Arrosa, — ricordati l’agnellino, l’agnellino.....
Ma egli non rispose e in breve scomparve sotto il bosco. Una terribile gelosia lo tormentava. Tornò all’ovile, ma si sentiva così di malumore che si bisticciò con zio Concafrisca, l’altro pastore, — e quasi quasi venivano alle mani. Riprese a battere il bosco, trascinando la sua tristezza per le macchie di cisto odoranti, al dolce tramonto, di rosa, e non potè far nulla per tutta la sera.
All’imbrunire si avvicinò alla cantoniera, ma non ebbe il coraggio di entrarvi. Per lung’ora vi si aggirò intorno, come un’anima dannata, ma solo di notte potè accostarsi.
Benchè dal fumajolo s’innalzasse ancora una sottile striscia di fumo perdentesi nella vaporosità della fresca notte di aprile, la porta era chiusa, chiuse le finestre e un grande silenzio regnava intorno. Dalla finestra della camera dell’ingegnere, a pian terreno, sfuggiva la luce del lume che descriveva un quadrato luminoso sullo stradale.
Jorgi Preda si avvicinò e vide, attraverso i vetri, il signore dalla barba bionda, quello che Arrosa aveva detto esser l’ingegnere, in maniche di camicia.