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La ragazza si mise a correre, decisa di lanciargli un sasso, ma in quel punto apparve un uomo, nel verde di una macchia, e la fermò gridandole: ohè, Manzèla, da queste parti? — Era Pietro Chessa che veniva pur esso da Nuoro, e che seguiva i due ragazzi da più di mezz’ora.
— Sì, da queste parti! — rispose Manzèla con una smorfia — Eri da molto senza vedermi, da queste parti!
— Eh, sì, da avant’ieri!
Proseguirono insieme la via. Bustianeddu andava sempre avanti, temendo qualche tiro della sorella, — e cantava in dialetto. La sua vocina stridula, ma cadenzata, si smarriva in lontananza, per le macchie che chiudevano la pianura, fra il ronzio delle mosche nascoste nei fieni alti, immobili al sole. Pietro e Manzèla seguivano. La ragazza esponeva al giovine tutte le cattiverie, e le male azioni di Bustianeddu. Oramai non poteva sopportarlo più, e il momento che le cascava sotto le unghie doveva scorticarlo vivo. Ma Predu quasi quasi non l’ascoltava. Con gli occhi fissi nel vicino orizzonte, chiuso dalle alture su cui imperano rovinati i nuraghes che dànno il nome a quella cussorgia, — quella appunto ove si trovava l’ovile suo e di zio Nanneddu, — nella linea del cielo d’un azzurro così profondo e cupo da parer tristissimo, Predu pareva immerso in un sogno.
Egli era pazzamente innamorato di Manzèla.