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Manzèla aveva diciotto anni. Veramente essa dai sedici anni non si moveva più adducendo per prova i tredici di Bustianeddu, — ma in realtà ne contava diciotto. Era sottilissima e piccola, coi cappelli neri divisi in due bende sulla fronte un po’ bassa, e alla sua carnagione bianca il sole e l’aria avevano dato quella tinta calda, dorata, e diremo quasi bionda, delle razze latine confinanti alle more.
In casa Fenu c’era la specialità degli occhi grandi, e Manzèla, poi ce li aveva enormi. Due strani occhi leggermente chiari, senza esser bigi, pieni di una falsa ingenuità, e di sorrisi vaghissimi. Manzèla si valeva ad ogni istante dei suoi occhi, — rendendoli dolci, o spauriti, od attoniti, a piacere, e allorchè era adirata li chiudeva un pò, sapendo che allora erano terribili. Con tutto ciò essa non era maligna: si credeva di esserlo, ma non lo era, come non era cattiva, benchè Bustianeddu glielo ripetesse ogni istante. Anche quella mattina, venuti a parole lungo la via, il piccolo pastore le ripetè: sei cattiva!
Manzèla non potè sopportarlo e picchiò con un gambo di ferula la groppa della cavallina che si mise a correre pazzamente attraverso il piccolo sentiero erboso. Ma Bustianeddu si tenne fermo, e quando potè far calmare la bestia, si voltò indietro ridendo a squarciagola e apostrofò la sorella chiamandola: Feruledda, Feruledda!