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col suo pelo. Tilipirche cavalcava meravigliosamente e andava su per i sentieri assiepati di rovi e di lentischi, a occhi chiusi. Quando la bisaccia non era troppo pesante il piccino caricava in groppa o sul davanti di Telaporca un buon fascio di legna, rami di ginepro o cottichina, cioè radici legnose di lentischio, — e se non poteva più, portava a casa cinque o sei scope di ginestra e di timavo, che lasciavano il profumo dietro i passi lenti e cadenzati della bizzarra cavalcatura.

Ogni due o tre giorni, dunque, o almeno una volta alla settimana, zia Ventura o la bella Manzèla si recavano all’ovile per visitare zio Nanneddu, — che invecchiando diventava un vero cinghiale, — e godersi il sole in pianura.

Si portavano il cucito, o dei panni da lavare nel ruscello, che attraversando la tanca stagnava in parecchi punti, formando così dei piccoli laghi verdi circondati di giunco e di nepitella freschissima, — e ultimamente, anzi, zia Ventura s’era impossessata di un pezzetto di terra sempre umida, e ci aveva ficcato una enorme quantità di patate, poi una siepe alta di pomidoro e fagioli, che coltivava con immensa cura e passione.

Qualche volta le due donne si fermavano ben anco a dormire nell’ovile: dacchè aveva escogitato la professione di ortolana, zia Ventura pareva ammaliata, e se scorrevano più giorni senza che avesse visitato quel benedetto luogo pareva ne morisse. Manzèla si stizziva, la sgridava, dicen-