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una volta le labbra per non dare in esclamazioni e per non mancare di rispetto al pievano, interrompendolo; — anzi è troppo tardi davvero!..
— Come lo sai tu? — chiese il vecchio stupefatto.
Bellia raccontò la sua avventura di cinque anni prima.
Al pievano sembrò di sognare; aggrottò le placide sopracciglia bianche, inforcò nuovamente gli occhiali e lesse per la centesima volta il testamento, poi esclamò:
— Gesummio, Gesummio, cosa vuol dir ciò? Ecco che io ho seguito tutte le norme datemi; e qui c’entra senza dubbio il demonio. Senti il testamento: non è a dire che sia scritto in latino, nè ispagnuolo e neppure in Italiano. È scritto proprio in sardo, in logudorese. Leggilo tu stesso...
Bellia prese tremando la carta. Era un foglio di carta giallognola, grossissima, fregiata a ghirigori dorati. In un angolo c’era il sigillo del padre di Donna Maria Croce, con una corona da cavaliere e un D. un E. e un M. intrecciate a una piccola spada, una specie di stocco: il tutto in oro vecchio, un po’ sbiadito dal tempo.
Il bizzarro testamento era davvero scritto in logudorese, con una calligrafia antica, grossa, incerta, tuttavia leggibile, e Bellia lo lesse a voce alta, sillabando, con l’accento che gli tremolava un poco: