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VII.


Non fè l’augel di Giove Ida sì mesta,
Per fare il ciel più bello, e più lucente,
Quando al regno di sopra fè presente
Di quel, che Giove, e gli altri fan sì festa:
Nè fu a Menelao tanto molesta
La forza del Pastor; benchè dolente
Ei poi ne fosse, e la Trojana gente
Pur sparta un tempo, e la Grecia funesta;
Ch’a me non faccia più dispetti, ed onte
Lo aver perduto un’alma margherita,
Con un mio sagro, e dilucido fonte •
Essi da me altrove trasferita
Con sue bellezze rilucenti, e conte;
Sì che dal corso uman l’alma ho smarrita.


VIII:


Deh! ch’or potess’io disamar sì forte,
Com’io forte amo voi, Donna orgogliosa;
Poi per amore m’odïate a morte,
Per disamar mi sareste amorosa:
Così avrei bene per diritta sorte,
Ch’ora ’l mio cor mercè chieder non osa,
E del gran torto, che m’è in vostra corte
Fatto, mi vengerìa alcuna cosa.
Torto ben e, che non lo vi unqua pare,
Non ausare in piacer, ciò ch’è piacente,
Ed essere odïato per amare:
Ma al grado vostro in tutto so’ obbidiente;
E sarò alfin, che non posso altro fare;
E fia mistiero, ch’io vegna vincente.