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in quello stato di fortezza virile, che lo ha reso sin qui incolume dalla corruzione, sicuro contro le minacce della fortuna, saldo contro le sue seduzioni, e possa compiere quella grand’opera nazionale che è stata condotta oramai tanto vicina al suo termine.

I miei lettori si sono avvezzati a perdonarmi i paragoni volgari. Mi perdonino dunque anche questo: — Il vin buono s’ha a mettere in una botte sana. Se sa di muffa, lo guasta. —

A questo punto mi volgo al Lettore, e gli domando se in cuor suo egli non ha già pensata la frase seguente: È un Piemontese che parla. Capisco: vuole la Capitale a Torino!

Se tale è il pensiero del Lettore, mi permetta di dirgli che tale non è il pensier mio.

Quando l’esercito Piemontese passò il Ticino nel 1848, e prima ancora quando in Piemonte sorsero voci per proclamare il diritto dell’Italia all’indipendenza, nessuno di noi ignorava che la riuscita della nostra impresa doveva, quanto agl’interessi nostri di provincia, esserci dannosa.

Ma sapevamo altresì essere bello ed onorato atto il sacrificare qualchecosa degli interessi materiali, per procurare all’intera nazione quella forza che il Piemonte non poteva avere da sè, onde far rispettare il suolo della Penisola e l’onore del sangue latino.

Fin d’allora eravamo persuasi che riunita l’Italia in un solo Stato, il Governo probabilmente non avrebbe più la sua sede in Torino.

Credo d’interpretare rettamente il sentire dei Piemontesi su questa questione, dicendo che tutti accettiamo ora questo fatto senza opposizione ove sia giudicato utile all’Italia.