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ed ancora al momento presente vi conservo molti amici ai quali mi stringe stima ed affetto sincero. Conosco che dovrò dir cose contrarie ai loro desiderii ed al loro sentire, e per un pezzo sono stato in due s’io dovessi parlare, o tacere. Ma, tacendo, devierei per la prima volta dalla linea che ho sempre seguita. Parlerò dunque; e qualunque amarezza mi si prepari, mi conforterò col pensiero d’avere obbedito alla voce del dovere. Tale considero il non ritirarsi dalla discussione degli affari del proprio paese, ed il cooperare fino all’ultimo al loro buon andamento, senza lasciarsi adescare da quel pericoloso fantasma della popolarità, che ha fatto andare a traverso tante idee buone ed accettarne tante storte o dannose.

L’astenersi in ogni caso m’è sempre sembrato atto sospetto o di doppiezza, o di timidità.

Torno al mio proposito. Finchè la sede del Governo è Torino, finchè il Parlamento è in mezzo alla popolazione piemontese, il potere esecutivo sarà sempre libero d’esercitare quell’azione legale che gli attribuisce lo Statuto, tanto sulle amministrazioni, come nelle sue relazioni coi poteri legislativi. Le crisi ministerali nel genere di quelle di Rossi, a Torino sono impossibili. Se sotto il loggiato del palazzo Carignano un ministro cadesse colla jugulare recisa, i deputati si precipiterebbero dalle Camere, i cittadini dalla piazza, e gli autori d’un simil fatto non avrebbero agio di passar la notte festeggiando ed insultando alla famiglia della vittima, come fecero a Roma.

È ancora un mistero quale sia stato il partito che ordinò la morte dell’illustre ministro: fu attribuito egualmente alla Curia Romana come alla Curia dell’Idea. Non vi sono prove certe, ed è dunque impossibile il sentenziare.

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