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Questa era la nostra vita, in quel collegio nelle prime ore mattutine.

Dopo la messa si scendeva, per una scala quasi a chiocciola, per andare in refettorio. Accadde che una mattina, nello scender molto velocemente questa scala, diedi un urtone ad un certo Mazza il quale mi sonò un par di pedate; mi rivoltai come una vipera dicendo che mi sarei vendicato da grande.

Ritroveremo questo Mazza.

In refettorio si trovava una pagnottella asciutta e un bicchier di vino acquatico. Dopo tre quarti d’ora di studio; quindi due ore e mezzo di scuola. Seguiva il desinare magrolino, con abbondante lettura dal pulpito; poi tre quarti d’ora di ricreazione. Scuola di nuovo, seguìta, nell’inverno, da breve passeggio fuori. Al ritorno due ore e mezzo di studio in camera, cena, ancora orazioni e, finalmente, a letto.

Nelle giornate estive ricreazioni e passeggio eran molto prolungati, ed allora si poteva effettuar quelle danze, che ho descritto, con merende e bicchierate.

La fame era così prepotente che spesso, per cavarcela, vendevamo i libri di studio agli ultimi arrivati per ridomandarli, poi, ai tutori che ciascun collegiale avea nel paese. Io riparavo domandandogli al Canonico Ricca un lungone, gran paino, amantissimo della poesia, colto, ricco, amatore di cose d’arte. Simpatizzava con me, sentendosi vittorioso per il naso più lanciato del mio. Anch’io ero lungo e magro come uno sparagio ed un po’ piegato.

Qualche volta, per riparare alla mancanza di libri, facevo delle vedute a penna da poter scambiare con libri. Una volta feci degli sposi, ambedue a cavallo d’un somaro, mentre dei ragazzi dagli alberi gettavan fiori su di loro. Ripensando, da adulto a questo mio caso ne ho dedotto che uno dei fattori per diventar artista è qualche mezz’ora di appetito.


Di contro alle finestre del nostro collegio era una pineta di pini giganti. Fra questi s’era imboscato un passero da me edu-