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Queste nostre vigne, fuor della porta circa un chilometro, si distendevano in numero di sette dalla sponda destra del Tevere fin sopra a Monteverde. Vi eran sette casini, alcuni dei quali erano assai belli e di lusso. Un di questi era proprio in riva al Tevere, di architettura Impero. A pian terreno vi si trovava una sala ovale con colonne, con quadri, dei quali uno mi è rimasto impresso. Vi era raffigurata l’Inerzia; la rappresentava una bella e giovine donna; curvata appoggiava un gomito su una tavola, l’altro braccio teneva penzoloni, la camicia le era scivolata dalle spalle e mostrava il petto avvizzito, una calza era sul pavimento, l’altra era al piede senza scarpa. Avea dinanzi la zuppa pronta che più non fumava ed il gatto sulla tavola che facea suo prò della sonnolenta. Don Pasquale, davanti a questa, ci diceva:

— Vedete l’Inerzia? Fa diventar brutte anche le belle!...

E sputava.

Al di là di questo casino v’era un prato che declinava al fiume tutto fiorito di margherite. AI di là del Tevere le antiche sacre mura di Roma con le loro torri, la piramide di Caio Cestio, le torri della Porta Ostiense, piedistallo al Monte Testaccio che si eleva dentro. Nel fondo, a sinistra, l’Aventino e Roma; a destra i colli Albani smaltati di paeselli ed una linea di Campagna Romana che fa indovinar il mare. Veduta incantevole!...

Su questo prato si andava a prender il caffè tutta la numerosa famiglia e gli amici invitati. Si faceva musica, si improvvisavano versi da Masi, che divenne poi generale, e da mio fratello Giuseppe.

Un giorno veniva per fiume un bastimento carico di aranci; ed i marinari di questo furon tanto presi dalla gioia della comitiva del prato che si misero anche essi a cantare nel loro dialetto gettandoci una vera pioggia di aranci.


Di fronte a questo casino si apriva un gran viale ad alberi fruttiferi fiancheggiati da siepi di mortelle. Di tratto in tratto