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dopo la merenda, lanciati i tricorni sugli alberi di fico, si ballava con le giovani contadine. Era grazioso davvero veder questa danza di piccoli Watteau con le forosette a piedi nudi. Per riprendere il cappello si montava sull’albero di fico, piacevol fatica dolcemente compensata. Una delle contadinelle, la quale per me avea una certa poesia, avea nome Rosa. Ed abitava una casina sopra una collinetta che chiamavasi Montedoro. La vidi una sera al calar del sole, che, seduta su un cavallo senza sella, lo menava ad abbeverarlo, camminando tra le ginestre in fiore.
Per le vacanze autunnali, settembre e ottobre, si tornava a Roma in famiglia.
A Montefiascone nella parlata si sente il toscano. E, tornato a Roma, io la pretendevo con i fratelli maggiori un pochino nella buona pronunzia.
Benchè avessi dodici anni, io prendevo gran piacere a percorrer le vigne che avevamo fuor di Porta Portese a cavallo ad una canna, cavallo indomabile che andava a salti per salite e per scese, ubbidiente poi quando si trattava di fermarsi allo scopo di mangiar baccelli, piluccar uva e si prestava a coglier fichi dall’albero.
Una delle mie passioni era di lanciar aquiloni in cielo. Una volta ne feci uno in forma di angelo con le ali aperte. Durante la fabbricazione venni dai fratelli deriso togliendomi la fiducia che potesse elevarsi. Accadde, però, il contrario; e mentre si elevava mio fratello Paolo mi tolse violentemente il cordino dalle mani. Montai in tanta rabbia che, appena potei avere tra le mani il mio lavoro, lo feci a pezzetti e fuggii da casa. Ne stetti lontano tre giorni, aggirandomi per le nostre vigne e dormendo dai vignaroli. Tornai a casa tutto lacero ad uso di figliuol prodigo e fui accolto. Par che i miei fratelli maggiori si fosser divertiti a dir ai nostri vignaroli, che non ne fecer nulla, di inseguirmi con i fucili facendo le viste di credermi un ladro.