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attraversato. La Polizia era stata avvertita ed aveva disteso un cordone di Gendarmi, da quella parte di Roma, per agguantar noi e le armi. Appena ce ne accorgemmo subito ci sparpagliammo, andando ciascun per conto suo. Fatto un lungo giro, io verso l’alba, per riaccostarmi ad una delle porte, imboccai un sentiero oscuro tra due siepi; quando ad un tratto, mi sentii dare il «Chi va là!» e scorsi un gendarme che mi sbarrava il passo con la punta della baionetta.
Io fui pronto a mettergli al petto la canna della mia pistola, mentre con l’altra mano gli porgevo un pezzo da venti franchi, di quelli che allora comunemente si dicevano «napoleoni». Gli gridai di scegliere fra una palla ed un napoleone.
Al che il gendarme, tendendomi una mano, esclamò:
— Dammi il napoleone.... sono stato brigante anche io....
Così potei rientrare in città prima che fosse giorno. Uno ad uno anche i compagni vi poterono, chi da una porta e chi dall’altra, far ritorno.
XXXVII.
LA INSURREZIONE DI ROMA FALLISCE
PER TRADIMENTO.
Gli amici ci domandavano da Firenze un moto che avesse facilitato a Garibaldi di entrare in Roma.
Garibaldi, nel frattempo, era stato dal Governo, sotto la pressione della Francia, tratto in arresto e relegato a Caprera. Ma n’era fuggito, aveva passato il confine, avea riunito sotto il suo comando i vari corpi garibaldini, che già si trovavano sul territorio pontificio e campeggiavano intorno a Roma. Non pochi Garibaldini, specie coi carretti del latte, riuscivano a penetrare in Roma e ci incitavano all’azione: