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XXXI.
NELLA FORESTA DI FONTAINEBLEAU.
Quando Giorgio Mason, del tutto rinfrancato e pieno di rinnovato ardore per l’Arte, impaziente di riveder la famiglia e di rimettersi al lavoro, si congedò da me a Parigi per tornarsene a casa sua, io vi rimasi. Assai mi allettava la molta cordialità verso di me dei confratelli francesi. Inoltre s’era tuttora nella buona stagione; ed a me era assai gradito di percorrere i pittoreschi dintorni della grande città, tutti prati e boschi, popolati, qua e là, di gaie e laboriose colonie di pittori. Eran, quelle, le campagne nelle quali erasi formata la tanto gloriosa pittura francese di paesaggio; notevole fra tutte quella della «Scuola di Barbizon» che avea avuto il suo maggior capolavoro nel Etang de Ville d’Avray del gran Corot, capo incontestato di questa scuola.
Girando per la famosa foresta di Fontainebleau, la voglia mi prese di misurarmi con quel paesaggio e di fermarmici qualche tempo a dipingere.
A Marlotte era stabilita una piccola simpatica colonia di pittori, che mi accolsero con la consueta allegra cordialità ed io mi fermai con essi.
E con taluni di essi andavo a lavorare. Il mio poderoso naso, il mio francese un po’ imbarazzato, erano qualche volta motivo ai giovani e scorbellati studenti di beffarsi alquanto di me. Ma un di loro, certo Villers, un giorno, avendo veduto uno studio che io avea alle mani, parlandone agli altri, per significare che io non era, come suol dirsi, uomo da prendere sotto gamba udii che diceva loro: