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ed io conoscessimo ogni zolla, ogni piega di quel terreno. Ciò che ci permise di evitar l’urto e sicura morte, ridicola quanto spietata.

Passata la mandria fuggente, ripigliammo a salire e giungemmo al terzo bastione. Vi trovammo sette od otto dei nostri. I quali, da sotto una balza davano il «Chi va là» cambiando voce, e faceano gran strepito per far credere al nemico d’esser in molti.

Erano con questi il capitano Regnoli, il fratello di Adelaide Ristori e tre o quattro trasteverini, un dei quali, facendoci egli il rancio, era da noi chiamato il «Ranciere.» Mentre io dicevo al Regnoli di esser meglio di non illuminare con i miei razzi la fuga dei nostri, vediamo due staccar sul cielo. Diamo il «chi va là». Rispondono in eccellente italiano:

— Viva la Repubblica Romana! Avanti due.

Due, il Ranciere ed un altro, andarono. S’intese un sordo e breve cozzar di ferri, qualche imprecazione di «Corsi traditori» e silenzio.

I due più non tornarono.

Noi rimanemmo tutta notte. Tornato la mattina a casa mia, montai sul tetto per rendermi conto dell’accaduto. Vidi i due nostri giacere a terra ammazzati. E vidi la casa Barberini occupata dai Francesi; i quali, nella notte, passando per la breccia si erano fatti padroni delle mura.

Un manipolo dei nostri, fra i quali il pittore Gerolamo Induno, diede nella mattinata un assalto alla casa Barberini. I Francesi, non mostrandosi, lasciarono che entrassero dentro e li crivellarono di baionettate. Tra gli altri l’Induno venne gettato fuor da quella casa ed a forza di baionettate, — ne ebbe quindici o venti — di gradino in gradino fatto rotolare per la scalinata. Non so come venne liberato: la sera stessa, però, trovai l’Induno all’ospedale amorosamente curato dal dott. Feliciani che salvò la vita all’artista eroe.


Presa che fu la breccia, noi riducemmo la nostra difesa alla Cinta Aureliana.