Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 75 — |
ed io conoscessimo ogni zolla, ogni piega di quel terreno. Ciò che ci permise di evitar l’urto e sicura morte, ridicola quanto spietata.
Passata la mandria fuggente, ripigliammo a salire e giungemmo al terzo bastione. Vi trovammo sette od otto dei nostri. I quali, da sotto una balza davano il «Chi va là» cambiando voce, e faceano gran strepito per far credere al nemico d’esser in molti.
Erano con questi il capitano Regnoli, il fratello di Adelaide Ristori e tre o quattro trasteverini, un dei quali, facendoci egli il rancio, era da noi chiamato il «Ranciere.» Mentre io dicevo al Regnoli di esser meglio di non illuminare con i miei razzi la fuga dei nostri, vediamo due staccar sul cielo. Diamo il «chi va là». Rispondono in eccellente italiano:
— Viva la Repubblica Romana! Avanti due.
Due, il Ranciere ed un altro, andarono. S’intese un sordo e breve cozzar di ferri, qualche imprecazione di «Corsi traditori» e silenzio.
I due più non tornarono.
Noi rimanemmo tutta notte. Tornato la mattina a casa mia, montai sul tetto per rendermi conto dell’accaduto. Vidi i due nostri giacere a terra ammazzati. E vidi la casa Barberini occupata dai Francesi; i quali, nella notte, passando per la breccia si erano fatti padroni delle mura.
Un manipolo dei nostri, fra i quali il pittore Gerolamo Induno, diede nella mattinata un assalto alla casa Barberini. I Francesi, non mostrandosi, lasciarono che entrassero dentro e li crivellarono di baionettate. Tra gli altri l’Induno venne gettato fuor da quella casa ed a forza di baionettate, — ne ebbe quindici o venti — di gradino in gradino fatto rotolare per la scalinata. Non so come venne liberato: la sera stessa, però, trovai l’Induno all’ospedale amorosamente curato dal dott. Feliciani che salvò la vita all’artista eroe.
Presa che fu la breccia, noi riducemmo la nostra difesa alla Cinta Aureliana.