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Durante l’assedio ho passato i maggiori pericoli nell’andare all’ospedale dei Pellegrini e tornarne. Nel venir da ponte Sisto, al vicolo del Moro, c’era dopo una discesa una piazzetta. Una volta vi assistei ad uno spettacolo sanguinoso: una bomba esplose sotto la pancia di un cavallo montato da un ufficiale. Così vidi cavallo e cavaliere andare in pezzi accanto a me.


V’era poi altra piaga.

Molti bellimbusti facevano gli eroi; davano ad intendere per Roma di essersi battuti alle mura. Epperciò si permettevano ogni cosa, di soverchierie e birbonate, per le case dei poveri trasteverini.

C’era, fra gli altri, un certo Valeri, veneto, il quale si spacciava per tenente garibaldino; per i combattenti diceva lui, andava rapinando galline alle vecchie, ed imponeva il suo amore alle giovani e portava via le argenterie per le spese della guerra. Saputo tutto questo andai da Garibaldi. Lo trovai in piedi al disopra del muro in cui i Francesi praticavano la breccia. Aveva la sua camicia rossa, il fazzoletto di seta al collo, calmo, quantunque si sentisse tremar la terra per le palle che colpivano le mura e piombassero bombe per allontanare i difensori. Le bombe si interravano e poi esplodevano. Quasi tutti si gettavano a terra per non essere colpiti dalle scheggie. Ma Garibaldi era sempre là ritto come una divinità invulnerabile.

Esposi le gesta del Valeri. Mi rispose:

— Cosa vogliamo fare? Fucilarlo o chiuderlo in Castel Sant’Angelo?

Risposi:

— Come ella, generale, troverà più giusto. Ma per me lo farei arrestare e, dopo avergli fatto fare un giro per Trastevere legato, lo manderei in Castel Sant’Angelo.

— Volete portar questi miei ordini?

lo risposi che per allora meglio avrei amato rimanere al suo fianco.

— Restate, — disse il Generale.