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Battendomi con i Francesi ho avuto sempre il sentimento di abbracciarsi prima, poi battersi e quindi riabbracciarsi.

Ho trovato il semplice soldato francese bravo ragazzo, vivace e di buon umore; generoso nella vittoria, danzante nella ritirata. Nel tedesco, o piuttosto il soldato tedesco ho trovato rappresentare un numero della scienza matematica, sarcastico, duro e crudele, senza coscienza di responsabilità, senza sentimento umano, senza la serena gioia di chi ha un ideale.

Il trasporto dei due feriti fino alla chiesa di San Pietro in Montorio assai penoso fu per essi, ma ben più penoso fu per noi. Perchè, oltre il peso dei due tanto voluminosi corpi e dei due fucili, il loro ed il nostro, ci straziavano i lor lamenti ed i morsi che, nel loro atroce spasimo nel moto, essi ci davano nel collo perchè li lasciassimo. Si raccomandavano:

— Buttateci in terra.... lasciateci.... soffriamo troppo!...


Facendo io parte della commissione degli ospedali — che si erano pienati di feriti — alla sera ne feci il giro. Quindi, mezzo morto per la fame e per la stanchezza, me ne tornai a casa a San Francesco a Ripa. Mi buttai a dormire senza che la coscienza mi rimordesse. Perchè anche lì io era sempre in prima linea. Io mi trovavo a circa duecento metri dalle mura a me affidate da Garibaldi. Ed il fuoco, poi, era cessato.

Veramente i Francesi non han mai fatto alcun attacco a fondo tra Porta Portese ed il terzo bastione. Le mura, quivi, si estendevano nella valle su la destra del Tevere; e questa era dominata dalla nostra batteria dell’Aventino e da quella del Testaccio come da tutte le batterie del Gianicolo su cui erano diretti tutti gli sforzi del nemico, cui premeva aver nelle sue mani quell’altura che domina Roma.

Ad onta di ciò, per divertire forse l’attenzione della difesa, spesso tiravano sulla mia casa. Ed una volta una palla di fucile, entrando per diagonale da una finestra, trapassò una porta, andando a ficcarsi nel pagliericcio di un letto.