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loro catene. Carlo, impaziente, correva incontro ai loro applausi e alle loro lusinghe. “È tempo! è tempo!” ripetevasi da ogni lato intorno a Mazeppa. Ma il canuto etmanno rimane devoto e obediente allo Zar Pietro. Non travia dalla consueta austerita; non dà ascolto alle vane dicerie; e tranquillo e sereno passa la vita fra i banchetti.
“Che fa l’etmanno?” sclamava la gioventù. “È affievolito; è vecchio decrepito; gli anni e le fatiche hanno smorzato in lui il primiero generoso ardore. Perchè quella mano imbelle tuttora serba la clava? Questa sarebbe l’ora opportuna di mover guerra all’aborrita Moscovia. Se il venerando Doroscenco, o l’impetuoso Samoiloff, o Palei, o Gardienco,1 capitanassero il nostro esercito, i Cosacchi non perirebbero miseramente fralle nevi di un lontano paese, e la Piccola Russia avrebbe ricuperato le sue bandiere.2
In tal modo la gioventù temeraria, avida di pericolose novità, dimentica della passata schiavitù, dei felici sforzi di Bogdan, delle sacre pugne, dei trattati e della gloria degli avi, insorgeva contro Mazeppa. Ma l’età senile agisce con prudenza, e avanza con circospezione; nelle cose ardue, non prende un partito se non dopo assidua riflessione. Chi può addentrarsi nelli abissi del mare lastricati d’immobile ghiaccio? Chi può penetrare li arcani tenebrosi d’una anima astuta e dissimulata? I pensieri e i disegni di Mazeppa, frutto di passioni a lungo combat-