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eugenio anieghin 175

scelli e li trasforma in alabastro. La brina, il ghiaccio ci assediano da ogni banda, e ci dilettiamo di questi scherzi della natura. Ma Taziana questa volta non vi prende piacere. Non muove a salutar l’inverno, come era solita; non va a respirar la prima polvere del gelo, nè fregarsi il volto, le spalle e il seno, colla prima neve caduta sui tetti; Taziana maledice l’inverno, che la rapisce al suo nido.

L’ora prefissa s’avanza. La decrepita carrozza dimenticata nella rimessa, è tratta fuori, esaminata, rispalmata, rassettata. Tre chibitche trasportano la mobilia della casa, le marmitte, le seggiole, i cassettoni, i vasetti di conserva, le materasse, i piumini, i gabbioni del pollame, le pentole, le tazze, insomma, ogni sorta di arnesi. Una caterva di servitori e di contadini è adunata nel cortile; chi chiacchiera, chi piange; diciotto carogne sono attaccate alla carrozza. I cuochi allestiscono la colazione. Le chibitche sono cariche in modo che sembran montagne ambulanti; le vecchie si bisticciano coi cocchieri barbuti. Il corriere inforca una brenna emaciata e irsuta. I buoni augurii, i voti sinceri, gli addii ripetuti echeggiano intorno. I padroni entrano in carrozza; la venerabile vettura si scuote, crepita, si strascica sino alla porta del recinto.

“Addio, cari luoghi tranquilli... addio grata solitudine... ti rivedrò io mai?...”

E un torrente di lacrime scorre dagli occhi di Taziana.

Tra cinquecento anni incirca, secondo i calcoli dei filosofi, verrà, per l’effetto dei progressi della civiltà moderna, un giorno in cui si riformerà il no-