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174 | eugenio anieghin |
immediatamente d’andare a stare l’inverno a Mosca. Taziana intese con orrore un tal progetto. La fa raccapricciar l’idea di dover mostrare a una società che non la perdona a nulla nè a nessuno, la loro semplicità provinciale; la loro toelette usata e fuor di moda, il loro linguaggio antiquato e scarso! Di dovere esporsi alla critica dei damerini e delle galanti dame di quella capitale! Oibò! oibò! Più saggio e più sicuro partito è lasciarla in fondo alle sue macchie natie.
Eppure convien che se ne svelga. S’alza coi primi albori, se ne va pei campi e mirandoli con tenerezza, esclama: “Addio valli quiete, e voi vette dei monti amici, e voi fronde delle amiche selve! Addio bel cielo, addio ridente natura. Cambio questa vita pacifica e grata con una vita piena di illustre tumulto e di splendide ambasce! Addio, mia dolce libertà! Dove men vado? perchè men vado? Che avvenire mi serba la sorte?”
Le sue girate divengono ora più lunghe. A ogni passo, si sente fascinata dalla leggiadria d’un colle o d’un ruscello. Si affretta di conversare coi suoi boschetti, coi suoi prati, come si suol fare con antichi compagni che si debbono tosto lasciar per sempre. Ma l’estate già volge al suo termine; l’aurato autunno già nasce. La natura, pallida, tremante, appare magnificamente adorna, come una vittima che procede all’altare. Borea spingendo davanti a sè le nubi, già sbuffa, sibila, e l’inverno lo segue.
L’inverno è giunto; appende serti e festoni d’argento ai ramoscelli nudi degli alberi; stende candidi tappeti sulle pianure, sui poggi; ferma i ru-