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166 | eugenio anieghin |
CAPITOLO SETTIMO.
Mosca, figlia diletta della Russia, ove troverò
una città che ti somigli?
Dimitrieff.
Chi può non amare la paterna Mosca?
Guai a Mosca! Che cos’è aver veduto il mondo!
Ove si sta meglio? — Dove non si sta.
La neve strutta dai raggi dissolventi di primavera, precipita dai monti vicini in ruscelli torbidi, allaga le campagna. La natura mezza addormentata accoglie con un dolce sorriso il mattino dell’anno. Il cielo splende azzurrino. I boschi, tuttora trasparenti, si adornano d’una tenera lanugine di verdura. Le api abbandonano i loro palazzi di cera per andare a predare i fiori novelli. Le valli si asciugano e si smaltano; la greggia bela e il rosignolo garrisce nel silenzio notturno.
Quanto mi affligge il tuo ritorno, o primavera, primavera stagione d’amore! Che crudele agitazione regna nel mio sangue e nel mio spirito! Con che mesta voluttà io godo del zeffiretto che mi aleggia intorno nella mia solitudine agreste! Mi è forse vietato il piacere? o tutto ciò che diletta e ravviva, tutto ciò che esulta e brilla, deve sembrare orrido e tetro a chi è morto al mondo? Il susurro delle nuove giovinette fronde che subentrano a quelle dell’autunno decorso, ci richiama forse a mente qualche amara perdita