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un sogno spaventoso e incomprensibile, la loro mutua distruzione. Non sarebbe meglio che si separassero ridendo, e senza essersi tinta di sangue la destra? Ma il coraggio della gente ha una singolar paura della falsa vergogna.

Già le pistole splendono. Risuona il martello della bacchetta. La palla rotola nel cannone, il cane stride per la prima volta. Versano la polvere grigiastra nello scodellino. Rimontano la silice tagliuzzata e fortemente stretta dalla vite. Guillot sbigottito si rimpiatta dietro un tronco vicino. I due avversari gettano i loro mantelli. Zarieschi ha misurato con esattezza trentadue passi. Alle estremità di questa distanza, egli colloca i combattenti, i quali impugnano le pistole.

“Ora partite!”

I due rivali fanno, con piede fermo, lento, eguale, quattro passi, quattro passi verso la tomba. Eugenio avanzando sempre alza pian piano la sua pistola. Fanno ancora cinque passi, e Lenschi socchiudendo l’occhio sinistro prende di mira l’avversario. Anieghin spara. È giunto l’istante prefisso dal fato. Il poeta senza proferir parola lascia sfuggir l’arme, si posa la destra sul seno e cade. Gli sguardi suoi offuscati annunziano la morte, ma non esprimono nè la doglia nè il rimprovero. Tale struggesi al calor del mattino la valanga che brillava sul pendío di un monte. Colto da un subito brivido, Anieghin corre al moribondo, lo guata, lo chiama.... ma indarno! Egli fu. Il poeta spirò anzi tempo. Sorse la burrasca, e il gentil fiore si seccò sbocciato appena, e il fuoco sacro si spense sull’altare! Giace immoto, e sulla sua