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158 eugenio anieghin

            Ombra squallida e muta,
            Spazierò per le tenebre d’abisso.
            Divorerà il mio nome il ceco oblio:
            Ma tu, casta colomba,
            Forse a sparger verrai di tanto in tanto
            Qualche stilla di pianto
            Sulla precoce e solitaria tomba;
            E dirai sospirando: «Egli fu mio:
            A me sola sacrò la cetra, il cuore,
            E dei begli anni il fiore....»
            E mi ripeterai l’ultimo addio.


Son questi i versi intralciati e scipiti ch’egli detto. Un critico li chiamerebbe romantici; io però non so vederci cica di romanticismo; ma lasciamo stare. Verso l’alba, chinò la testa stanca, e s’addormentò pensando all’ideale. Parola alla moda! Ma aveva appena socchiuso le ciglia, quando il suo vicinante entrò nella stanza e lo destò dicendo: “Su, su, son battute le sette. Anieghin già ci aspetta, di certo.”

Zarieschi errava. Eugenio dormiva ancora profondamente. Le ombre della notte si diradano, il gallo canta lo spuntar dell’aurora, il sole ascende l’erta pendice del cielo, i fiocchi di neve luccicano e volano in giro, ma Eugenio non è ancora escito dal letto. Finalmente tira le cortine, guarda, e s’accorge che già da gran tempo avrebbe dovuto trovarsi sul campo. Suona il campanello. Il suo cameriere francese Guillot accorre in fretta, gli porge la veste da camera, le pantofole e la camicia. Anieghin si abbiglia, ordina a Guillot di prepararsi ad accompagnarlo colla scatola delle pistole. La slitta è pronta.