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154 eugenio anieghin

rabaldana. Sed alia tempora! La temerità passa colla gioventù, come il sogno dell’amore, quell’altra baronata. Il mio Zarieschi, come già dissi, si ricoverò dalle burrasche del mondo sotto l’ombra dei ciriegi e delle acazie. Lì viveva da vero filosofo, piantava cavoli come Orazio, nutriva anatre ed oche, e insegnava l’A. B. C. ai bambini.

Non era sciocco. Eugenio non stimava il di lui carattere, ma apprezzava il suo giudizio e le sue riflessioni intorno agli uomini e alle cose. Si frequentarono un tempo con piacere. Sicchè non fu meravigliato di vedere un mattino Zarieschi entrar in camera sua. Dopo i complimenti usuali, Zarieschi interrompendo la conversazione che stava per intavolarsi, e accennando cogli occhi, consegnò a Eugenio un biglietto di Vladimiro. Anieghin si trasse alla finestra e lesse a bassa voce.

Era una gentile, nobile, e corta sfida, o un cartello. Lenschi, garbatamente e freddamente, invitava Eugenio a battersi con lui. La prima mossa d’Eugenio fu di dire al messaggero senza altra spiegazione ch’egli era sempre pronto. Zarieschi non volle star di più; s’alzò in silenzio, e se ne tornò a casa ove aveva molto da fare. Ma Eugenio, abbandonato alle proprie riflessioni, fu mal contento di sè stesso e non senza motivo. Fece un severo esame della sua coscienza, e si trovò colpevole in molti riguardi. In primo luogo, aveva dileggiato con troppa crudeltà un amore timido e sincero; in secondo luogo, aveva spinto il poeta a far delle balordaggini; malizia appena perdonabile ad uno scapestrato di diciotto anni. Eugenio, che amava Lenschi di tutto cuore, dovea