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320 il morgante maggiore.

29 Quant’io per me, qual mansueto agnello
     Me ne vo, come Isacche, al sacrificio,
     Bench’io vegga già fuor tutto il coltello;
     Ch’io sento già quello eterno giudicio,
     Dove fia giudicato il buono e il fello,
     Tosto fia ministrato il grande oficio:
     Venite, benedicti patris mei;
     E nell’inferno discacciati i rei.

30 Però, mentre di vita ancor ci avanza,
     Perchè il fine è quel ch’ogni cosa onora,
     Ognun di paladin mostri possanza,
     Acciò che il corpo solamente mora;
     Ed abbiate buon cor sanza speranza,
     Perch’io non so quel che si fia ancora;
     E spesso ove i rimedii sono scarsi,
     Fu a molti salute il desperarsi.

31 E’ m’incresce che Carlo in sua vecchiezza
     Vedrà forse pur fin posto al suo regno
     Di Francia bella, e di sua gentilezza,
     Perch’egli è stato imperator pur degno;
     Ma ciò che sale, alfin vien poi in bassezza;
     Tutte cose mortal vanno a un segno:
     Mentre l’una sormonta, un’altra cade:
     Così fia forse di Cristianitade.

32 E increscemi del mio fratel Rinaldo,
     Ch’io non lo vegga innanzi alla mia morte
     A punir questo traditor ribaldo;
     E come cosa immaginata forte,
     Non posso in un proposito star saldo;
     E par che nella mente mi conforte
     Un pensier che mi dica: egli è qui presso:
     E guardo ognun ch’io veggo, s’egli è desso.

33 La cagion perchè il corno io non sonai,
     è per veder quel che sa far fortuna:
     Non vo’ che ignun se ne vanti giammai
     Ch’io lo sonassi per viltà nessuna:
     Prima fien tenebrosi in cielo i rai,
     Prima il sole arà lume dalla luna,
     Forse a Marsilio pria trarrò l’orgoglio,
     E con questo pensier sol morir voglio.