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352 il morgante maggiore.

14 Io son venuta perchè il padre mio
     Vuol ch’io ti dica quel che intenderai,
     Ch’un nostro gran nimico antico e rio,
     Se tu l’uccidi, i tuoi prigioni arai,
     E ciò che in Persia già ti promissi io:
     Non so se ricordar sentito l’hai;
     Ma molto suona la sua possa magna,
     Il Veglio appellato è della montagna.

15 E statti d’ogni cosa alla mia fede,
     Se tu farai, Rinaldo, quel ch’io dico;
     Ma dimmi come sia rimaso a piede,
     E ch’io non veggo Orlando qui il tuo amico:
     Piglia questo caval, che, per mia fede,
     Se non l’accetti, sarai mio nimico.
     Disse Rinaldo: In un deserto folto
     Rimase Orlando, e ’l destrier mi fu tolto.

16 Il me’ ch’io posso mi son qui condotto:
     L’amor ch’io porto a Antea me lo fa fare,
     E son venuto a piè più che di trotto;
     Nè voglio altro caval mai cavalcare,
     Insin che ’l mio Baiardo non m’è sotto:
     Or, perchè sempre mi puoi comandare,
     Colui che di’ di montagna o di bosco,
     Fammi assaper, ch’io per me nol cognosco.

17 E s’egli avessi la testa di ferro,
     Per lo tuo amor due pezzi ne faroe:
     Così ti giuro, e so che mai non erro,
     E d’ogni cosa in te mi fideroe
     Di ciò che fu ne’ patti, s’io l’atterro.
     Rispose Antea: Con teco manderoe
     Un de’ miei mammalucchi,3 che là vegni,
     E questo can malfusso te lo ’nsegni.

18 Io mi ritorno drento alla città,
     Chè tempo non è or da far soggiorno:
     A’ tuoi prigion niente mancherà,
     Ch’io gli ho sempre onorati notte e giorno;
     E libero ciascun di lor sarà,
     Rinaldo, in ogni modo al tuo ritorno;
     Macon sia teco. E poi voltò il cavallo,
     Chè ’n volto più non sofferia guardallo.