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canto decimosesto. 331

32 Nè fatto servo de’ servi d’Ameto,
     Nè tanto tempo Giacobbe fedele,
     Che veggendo costei, come discreto,
     Serviva per Antea non per Rachele;
     Che col suo viso faria mansueto
     Ogni aspro tigre arrabbiato e crudele;
     Anzi farebbe il mar pietoso e’ venti,
     E, per vederla, fermi stare attenti.

33 E non arebbe Andromada Perseo
     Combattuta col capo di Medusa,
     E fatto un sasso diventar Fineo,
     Nè fatto arebbe Ipolito mai scusa:
     Nè tanto Euridice chiesto Orfeo,
     O ver conversa in un fonte Aretusa;
     Se stata fussi Antea nel mondo allora,
     Che degli abissi l’anime innamora.

34 Non bisognava che Venere Iddea
     Insegnassi a Ipomene già, come
     Gittassi, mentre Atalanta correa,
     Come fussi passata innanzi, il pome;
     Nè nel suo Aconzio Cidippe scrivea,
     Veggendo a questa il bel viso e le chiome;
     E non sarebbe il convito turbato
     Del pome ch’a Parisse fu mandato.

35 Chè non l’arebbe giudicato a Venere,
     Non bisognava far di ciò contesa,
     E Troia non saria conversa in cenere,
     E tutta Grecia mossa a tanta impresa;
     Veggendo nude queste membra tenere,
     Che m’han sì il cor ferito e l’alma incesa,
     Nè da sè sè per sè stesso diviso
     Arebbe, questa veggendo, Narciso.

36 E non sarebbe Leandro d’Abido
     Portato così misero e meschino,
     Come tu sai, fra l’onde già, Cupido,
     Appiè della sua donna dal dalfino;
     S’avessi Antea veduta, ond’io pur grido:
     Nè Polifemo in sul lito marino
     Chiamata Galatea colla zampogna,
     Dolendosi che in grembo Ati a lei sogna.