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rava a negoziare, ossia a porre ad usura la propria virtù, lasciò nell’oscurità tutte le parti accessorie che avrebbero dato risalto alla cosa. Le genti volgari, a cui manca spesso l’ingegno, e più spesso il buon cuore per indovinare il bene da pochi dati che loro ne sieno offerti (quando invece hanno acume e perfidia incredibili per ingressare il male al primo sentore che loro ne arriva) vedendo nelle azioni di Tiburzio alcun che d’insolito, e di separato dall’opinione comune, si misero a gridare al mistero, quindi all’artifizio, per ultimo alla bricconeria. Tiburzio però non si smosse, tirò innanzi, sapeva di non far male, ma gli convenne usare non poco coraggio a non impaurirsi.
Sergio all’incontro ha mezzo mondo dalla sua. A tempo sa destreggiare, a tempo assalire: è il Fabio e l’Annibale de’furfanti. Tutti gli applaudono e gli fanno moine. Qui potrebbe dirsi: Far mal e paura no aver. E di che paura? Della propria coscienza? Oh la voce della coscienza è fioca, piccina! Ci vuole un gran silenzio delle passioni perchè la si possa udire; e quando anche tacciano le passioni, insorgono le grida degli adulatori del vizio che confondono la poverelta. Oh! questa è la satira del genere umano, si dirà da taluno. Non del genere umano in generale, rispondo io, ma di quella porzione che rinnega l’umanità. E ad ogni modo, anzichè percuotere i malvagi, che hanno la pelle alquanto