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     — L’odïai come suol nostra gente;
     Veder volli quel volto insolente
     249Qual sembrasse cangiando color.

»Negro», ei spesso, con voce di scherno,
     Mi chiamava, »tizzone d’inferno!»
     Questa fascia vo’ al collo serrarti,
     Tra me dissi, tal nero vo’ farti
     254Che non abbia la Nubia il maggior.

E il fei tale. O signori, se visto
     Dopo morto l’aveste quel tristo!
     Ma che giova? Non egli v’offese,
     Non n’udiste il comando scortese,
     259Non la sferza di lui vi piagò.

Impassibili voi giudicate,
     Genti ignote assolvete o dannate;
     È la colpa tradotta nel Foro,
     Ma del tempo e dell’alma il lavoro
     264Lento, arcano vedersi non può.

Giudicate, punite, son pronto;
     Men è dura la morte che affronto
     Della vita vassalla, infelice,
     Onde già della mia genitrice
     269M’era forza la tinta scontar. —

Più non disse; e già il bruno corteo,
     Che al patibolo è scorta del reo,