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po. — Che? Cinque giorni? Io non sono solita ad aspettare. — Qui montò al capo di mastro Ubaldo un poco di boria della sua arte: Saprà vossignoria, che a chi vuole scarpe di mastro Ubaldo è mestieri l’attendere. Cinque giorni sono il più corto spazio che io possa. — La marchesa si risenti anch’ella: Quando io pago posso pretendere che mi si serva sollecitamente. — Sì, certo, ma non oltre la possibilità di quel paio di braccia da cui vuol esser servita. — Sta a vedere che i calzolai saranno essi che c’imporranno la legge! — No i calzolai, ma le signorie loro che vogliono usare le scarpe lavorate dal nuovo. E s’egli potesse ora moltiplicare il lavoro delle proprie braccia in proporzione dell’ozio degli anni passati forse che le cagioni alle lagnanze sarebbero tolte. Ma questo, vede bene, è impossibile.

Qui il dialogo tra il calzolaio e la marchesa ebbe fine, ossia continuò come sogliono tutti gli altri dialoghi di simil fatta. Dove per altro ha termine il dialogo vorrebbero incominciare le nostre riflessioni. Quanti non sono i nuovi, che sbucano dal loro vicolo dimenticato in forza del terno al lotto, e venuti a piantar bottega nel bel mezzo della città hanno i battimani di chi non li degnava pur d’uno sguardo? O crederemo che i giudizii degli uomini sappiano essere imparziali ed esatti quando trattisi di più gravi argomenti, se tali non si trovano nemmeno in proposito di un paio di scarpe? Quante