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che si usano frequentemente dagli odierni scrittori, e (sebbene pronunziata da una femminetta dell’ultima plebe) non indegna di essere allogata nelle prime pagine di qualche novella, ove sembrano inevitabili le descrizioni. Passeggiava dunque la piazza di s. Marco, un’ora forse innanzi il tramonto, e, guardando intorno e all’insù, con quella inavvertita mobilità di pensieri, ch’è molto prossima a ciò che dai Francesi chiamasi flanerie, ed io non saprei tradurre senza un po’ di stiracchiatura di frase, sembravami che le fabbriche tutte si fossero di molto rappicciolite da quello mi apparivano quand’era fanciullo. Ciò mi fece pensare e ritorcermi colla memoria a quel tempo, nel quale io vedeva venirmi addosso la notte con mille paure, e quando trovavami avvolto in qualche gran moltitudine di persone non poteva a meno di ricorrere coll’immaginazione al giudizio universale.
E perchè adesso queste fabbriche così picciole? Perchè allora sì grandi? La risposta mi veniva semplicissima: perchè allora assai piccioli i miei pensieri, rispetto a quello che sono presentemente. Ma sarebbe risposta del mio amor proprio, o della ragione? Vediamo. L’ignoranza, nè più nè meno dell’oscurità, ingigantisce gli oggetti, facendone sparire i contorni. Quello che danno gli oggetti esteriori al nostro intelletto egli è poco in confronto di quanto essi da noi ricevono; e sebbene, come dicono le scuole, nulla penetri all’intelletto salvo per l’organo