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gliarle una tanta severità di gastigo, e allora potrebbesi credere che gli occhi di Tiresia non fossero stati soli ad osare. Che che ne sia di queste varie dichiarazioni, ci ho anch’io la mia, differente dall’altre tutte, e, buona o cattiva ch’ella possa parervi, senza più ve la espongo.

Io ci veggo in Tiresia uno di quegli uomini, più fortunati che savii, ai quali essendo toccato alcuna volta di colpire nel segno, si credono di non aver più ad errare in cosa alcuna, e che a quel tanto che da indi vien loro detto sopra qualsivoglia argomento, corra obbligo a tutto il resto degli uomini di abbassare il capo e prendersi come oracoli le loro parole. Dico più fortunati che savii, perchè la saviezza insegnerebbe loro a procedere sempre con lentezza e circospezione, e anzichè invanire di un felice trovato, starsene in sulle guardie delle seduzioni dell’amor proprio, che rende ciechi anche i meglio veggenti. Diffatti questi cotali i quali videro una volta senza velo la Dea, ossia conobbero il vero di alcuna cosa, è assai probabile che rimangano ciechi tutto il resto della lor vita, tra per la maraviglia che quello scoprimento mette loro nell’anima, e per la nebbia che l’ambizione loro diffonde sugli occhi. Oh quanto era meglio per essi di non mai affissarsi nelle membra divine, che collo stupendo candore dovevano loro abbagliar le pupille! Io non so se ne conosciate di questi cotali, posso ben assicurarvi che a me proprio è avvenuto di scontrarne spesso taluno; e mentre