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darsi dalle professanti in quel giorno, ma Chiara non vi fece attenzione, e condusse Felicita dall’abadessa. Il colloquio, che dovette tenere la nostra giovane, senza palesare le speranze secrete della sua anima, e senza mentire, rispondendo a ciò tutto di che veniva interrogata, non sarebbe forse disaggradevole pei lettori; ma più ancora che a questo colloquio ameranno ch’io gli ammetta, senz’altro, alla professione con cui deve aver termine il nostro racconto.

La chiesa era addobbata con molto elegante semplicità, e con quella minuta diligenza che è propria de’ monasteri. La gente vi era foltissima, e non bastando a tutta contenerla la chiesa, i più tardi ad arrivare, che per strana contraddizione sono per lo più i più curiosi, e quelli che ne vogliono saper più degli altri, si rimanevano a far cerchietti e a ciarlare nella piazzuola al di fuori. Giunto il prelato, la cerimonia doveva cominciare, e Felicita tremava tutta; e non è da domandare se avesse voluto si differisse d’un poco almeno quell’ora che, come si è detto, aveva i giorni innanzi tanto affrettato col desiderio. Al mostrarsi della giovane professante, circondata dalle monache, dal chiarore dei cerei, dal fumo degl’incensi, con mani giunte, con passi lenti ed incerti, quasi toccasse un terreno non conosciuto e che le potesse mancare sotto ai piedi, con un volto in cui dipingevansi i contrarii affetti dell’animo, compresi tutti per altro in quella speranza che non l’aveva mai abbandonata,