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ad interrompere la solitudine non propria dell’uomo. Se tanto riceve di consolazione quanto ne dà, non c’è più luogo a superbia, ma a gratitudine.

Per non indugiarmi nella discussione di un principio, che o si afferra a prima giunta o si corre rischio di sempre più disconoscerlo quanto più se ne parla, conchiuderò che l’amore di Felicita era del vero; sapeva mantenersi intatto nel conflitto crudele a cui veniva posta, filtrare per tutti gli ostacoli, insignorirsi di tutti gli avvenimenti; amore indomabile, costante, sicuro perchè innocente. E perchè tale, non aveva bisogno di esagerazioni, di trascorrimenti, di termini disperati. Chi sentivasi allettata a formare la felicità del compagno che le veniva conceduto dal Cielo, non poteva persuadersi di giungere a questo nobile fine avversando le intenzioni del padre, s’egli è vero che la felicità non fa prova nel terreno intristito dall’odio. Oltrechè la Felicita era d’animo mansueto, e ho detto più sopra che diffidava di sè in questo affare più assai che in ogni altro, sì per esser desso più di ogni altro importante, sì perchè non dissimulava a se stessa la passione, che, da volere a non volere, intromettevasi in tutti i giudicii della sua mente. Sicchè trovavasi terribilmente perplessa tra l’orrore di uno spergiuro, e l’angoscia di affliggere il padre. Il prelato, ricco di dottrina e di buon cuore, avrebbe solo potuto levarla da quelle angustie. L’autorità religiosa contrappesava il ri-