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lusioni, sommergendosi nel fiume corrente della verità, a quella guisa che il povero Mida, per liberarsi dalla sciagurata attitudine di tutto inorare, dovette bagnarsi ripetutamente nel Pattolo, il quale, come da tutti si sa, menava oro per sabbia nel proprio letto. E che la storia del re Mida sia appunto quella del nostro uomo ve ne deve far accertati quel resto che si racconta di quel monarca, vale a dire il giudizio da esso dato quando vennero a contesa del canto Pane ed Apollo. Nel qual Pane dai piedi di capro, è figurato, se nol sapete, chi affonda l’orme bestiali nel fango di questa terra, e suona la zampogna a lusingare la greggia che pascola, ch’io vorrei potessero essere le persone fortunate di questo mondo a cui è dato abbondante pastura alla stupida vita, e anche il piffero dell’adulazione che suoni lor dietro via a farle contente. E in quell’Apollo, che mai non si taglia i capelli, ci veggo rappresentata la persona del maestro eccellente, che, innamorato della propria arte, mentre canta tiene gli occhi volti all’insù, non curandosi della greggia, e lascia ad altri lo strebbiarsi e il lisciarsi e il pulire paroline per dar nell’umore ai favoriti della fortuna. E a Mida, che aggiudicò il premio al cantore caprino, si allungarono alquanto le orecchie, e ne fu stimato quel giumento ch’egli era; e sì pure fin tanto che il nostro buon uomo volle solamente badare all’utile presente, e agli affetti grossolani, fu pervertito nel suo giudizio, e credendosi aver sulla