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Egli l’ode trillare, occultato fra la siepe, quell’usignuolo che parvegli un tempo il messaggero dell’aurora; o gemere dalla solinga colombaia quel tortore a cui sembravano confidati i lamenti di una speranza non esaudita; ma quei trilli e quei gemiti più non hanno per esso veruna occulta significazione, e pensa alla manata del grano che può metter fine ad ogni lor musica. E tu pure, bellissima Elvira, apparisti agli occhi del tuo amante non altro che bella, dacchè all’armonia delle tue parole e de’ tuoi passi restò fredda quell’anima in altri tempi sì ardente. Potè dopo il giorno, in cui gli rimasero mortificate dal tocco della pietra filosofale le fibre, che si vibravano più sollecite e più gagliarde ad ogni lievissimo impulso dell’immaginazione, potè, dico, distinguere nella tua voce alcun che di stonante, nel tuo portamento qualche sprezzatura poco leggiadra. E sì quell’alcune dissonanze gli erano sembrate altra volta gorgheggi de’ più delicati, quelle alcune negligenze graziosità senza pari. Gran che, s’egli non giunse a disconoscere in qualche parte fin anco la tua bellezza! Ma egli ci voleva altro che pietra filosofale ad attutar l’impressione di quegli occhi dardeggianti sul vivo del cuore, di quelle chiome cadenti in vaghissimi cincinnetti alle tempie, di quel sorriso in cui l’ingenuità e la malizia si direbbero compendiate e confuse, se non fosse conosciuto al mondo l’amore, il più ingenuo e il più malizioso di tutti gli affetti.