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pra gettato. Levava gli occhi al cielo, ma non ci vedeva più l’astro consapevole di ogni nostro dolore, e vago di riflettersi più che altrove sulle rovine a circondarle quasi dirò di un’aureola che le faccia più venerabili e care, o di battere sulla fronte della bellezza a renderne più espressivo e desiderato il pallore; nulla di ciò vedeva egli più nella luna; ma un pianeta soggetto come tutti gli altri ad alcune leggi, e ad alcuni periodici mutamenti. Rideva di sè e delle proprie fantasticherie quando camminava per mezzo la campagna, e ricordavasi i sentimenti delicati che aveva attribuito alle piante tutte dall’erbetta più tenue all’arbore più vigorosa. Non vi era finzione poetica di amori e di nozze, ch’egli non avesse vagheggiata, principalmente la primavera, in ciascun fiore. E guai chi gli avesse detto a que’ giorni, che per essere a questo organate, si aprivano e giravano all’aria ed al sole, senza senso nè scelta di guisa alcuna, quelle belle e gracilette creature; egli voleva che ci avessero fra loro tendenze ed antipatie, presso a poco come fra gli uomini. E si piaceva a recarne gli esempi, a indovinarne i misteri, e a commentarne le varie funzioni. Dicasi il somigliante di tutta quanta ella è grande la natura, che il nostro uomo oggimai disingannato considerava, come da cattedra eminente, dal suo nuovo seggio di filosofo, cogli occhiali sul naso della dottrina, tolti quelli che colorati dalle passioni aveva sì lungamente adoprato.