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mondo nelle loro naturali sembianze. Non so se vi ricordiate a qual misera condizione si trovasse condotto Re Mida quando ogni cosa toccata, in oro se gli convertiva, e sì i cibi, sì le bevande, sì tutto che avesse voluto prendere, per assaporare, per odorare, per farne che che si fosse, tutto era oro; oro che non si poteva mangiare, nè bere, nè odorare, ma solamente guardare, e poi tornar a guardare, e sentirselo ognora pesante tra mano. Fate conto che a quel nostro tal uomo accadde appunto lo stesso. Egli trovava la verità di ogni cosa, ma verità insipida, pesante, uniforme, che non poteva essere, permettetemi usare la metafora, nè mangiata, nè bevuta, nè odorata, nè altro, ma solo mirata, e tornata a mirare, fino a rimanerne sazio e ristucco. Oh! come può essere, mi direte; la verità è fra le cose la più bella, e della sola vista, così almeno scrisse Platone, può far l’uomo contento. — Io venero grandemente Platone e la sua dottrina; ma in onta a tutta la mia venerazione per quel sapiente, mi conviene raccontare la mia storia. Il nostro uomo arricchito dal filosofo, per singolarissima grazia, della sapienza, vedeva adunque tutte le cose nell’aspetto loro più genuino. Per godere di questa sua nuova virtù ritornava dall’alba al tramonto col pensiero e cogli occhi a tutti gli oggetti dei quali aveva alimentato il suo giovanile delirio, quando gli apparivano fasciati dal manto prestigioso che una bollente fantasia e un cuore più ancora bollente vi avevano so-