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miramidi e degli Arbaci? O quel M. Rugilo, che, tranne la facilità, non ebbe mai vena di vera poesia in tutta l’anima? O il Diodati, che, valentissimo nella prosa, non si dimenticò di essere prosatore anche quando studiavasi di poeteggiare? O il più antico Mattei, o il Capponi, o il Giustiniani, o Redi Gregorio, che traduceva nel senso letterale e in quarta rima, o alcuno di quei più copiosi che volgarizzarono i soli penitenziali, e di tutti in somma i registrati e non registrati nell’indice pazientissimo compilato dall’abate Rubbi pel secondo volume del suo Parnaso de’ Traduttori?


XV. MORTE E CONCLUSIONE.



Così avesse potuto il Pezzoli compiere il suo lavoro! Ma in quel mentre che poneva termine alla traduzione del salmo che parla della via degl’immacolati, egli aveva compiuta la propria, e la morte il coglieva il 18 marzo di questo stesso anno 1834, incominciato il giorno di poco. La malattia di petto, che da più anni lo travagliava, insorse nel passato inverno più del solito minacciosa, e mostrò di non poter essere più rabbonita dai consueti rimedii. Il Pezzoli non perdette punto del proprio vigore d’intelletto e ilarità d’animo; apparve fino agli estremi sereno e conversevole, come uomo a cui il proprio termine non giunse punto inatteso, e più di quello che si convenga increscioso. Dal mondo ave-