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cui potrebbe ripetersi riguardo alle lettere veneziane ciò che Virgilio cantò di Marcello riguardo all’impero, e quel Giuseppe Cherubini, o più veramente Chiribiri, le cui sacre orazioni, quando hanno i critici d’oltramonte forse soverchiamente abbondanti d’encomii, dai nostri sono lasciate con soverchio rigore in piena dimenticanza. Ed è quasi un obbligo che ne corre di rendere giustizia ai Granelleschi; poichè nella storia delle ultime vicende della lingua, ove gran rumore si leva, e a ragione, delle Giunte veronesi e dell’esempio del padre Cesari, e ad esso, quasi a taumaturgo risuscitatore di morti, a coro si cantano responsorii, dei nobili tentativi di questi nostri concittadini poco o nulla si parla. Vuolsi per altro avvertire, notabile accidente anche questo, che quel seme di buoni studii, dopo avere sì bene e con tanta rapidità germogliato, assai presto nella universale corruzione perì; e già le nuove dottrine del Cesarotti e de’ suoi proseliti tenevano intero il campo della nostra letteratura, che alcuni dei Granelleschi vivevano ancora, altri avevano da soli pochi dì chiuso gli occhi. Ma qual era cosa che potesse secondo regole generali di antiveggenza giudicarsi in quei giorni, ne’ quali una catastrofe lungamente preparata si veniva maturando da molte parti, e scoppiava sì impetuosa da seppellire ben altro che la gentil voce delle muse sotto il fragore della rovina.