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entro la storta, l’altro passeggia coll’arco sopra il violino, il terzo, nel mezzo, è intento ad accordare un liuto. In quest’ultimo la pittura è sì prossima al naturale, che i riguardanti per poco non credono dover udire fra breve anco il suono. Inesprimibile dolcezza è in tutto l’atto di questo puttino che accompagna coll’occhio l’opera della mano corrente per la tastiera. Ma qual dolce suono darà quella mano, non dirò di fanciullo, sì d’angelo, come abbia finita l’accordatura? Vorrà anch’egli ne’ suoi più dolci anni accompagnarsi al cantico di Simeone che anela a lasciare la vita? Oh! s’egli è qui alcuna madre cui fosse tolto per tempo il suo unico amore, quando l’anima sua più addolcivasi nelle carezze, e più s’infocava ne’ baci, aspetto che quel core di madre, sì tenero e sì infelice, l’espressione m’interpreti del caro fanciullo, che certo non è della terra. Intenderà ella, più ch’altri, la musica di quel liuto fino all’ultima nota, avvezza com’è a conversare col cielo, a cui con occhi velati dal pianto incessantemente si leva, per domandar quella immagine di crescente felicità che le sfuggì dagli amplessi. Potranno parervi esagerate le lodi che a tal quadro si danno, o sconveniente il posto ch’esso teneva altra volta in s. Giobbe, di fronte ad altro stupendo lavoro di Giovanni Bellino? Ma un’altra osservazione vorrei non mi fosse tolta dal correre che fa verso il fine il discorso, quella cioè che come veniva meno al Carpaccio la giovinezza, non possiam dire venisse in lui meno del