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ch’essi facevano di colà nella loro patria le prime materie dei colori, derivasse alla nostra scuola quella dote mirabile del colorire, nella quale rimase sovrana: non dirò questo, e perchè sarebbe scemar pregio al divino ingeguo de’ nostri pittori, e, più ch’altro, perchè, come le note de’ musicanti e le frasi de’ poeti, così le tinte de’ pittori non altrove si hanno a ricercar che nel cuore: dirò bensì che, signoreggiata la mente dagli oggetti esteriori, li rimescola e li compone in sè stessa a produrre concezioni vaste e potenti, improntate però sempre della stampa di quegli oggetti. Doveva vivere a Venezia, e in quei tempi della veneziana grandezza, chi tanto splendore diede ai suoi quadri, chi li fece sì popolati, chi vi condusse sopra tanto oro, chi pellegrine fogge d’abiti, d’animali, d’arredi d’ogni maniera in essi introdusse. In quella Venezia emporio di tutto l’Oriente, dispensiera di ricchezza a tutto il cognito mondo. Voi la vedete nei quadri del Carpaccio la sterminata ricchezza di questa gran capitale, i cui senatori mercatanti salutarono primi le stelle dell’opposto emisfero, gran tempo innanzi che il Portoghese levasse le colorate sue vele sui mari di Mozambica. E questi mercatanti, tornando da lontane navigazioni, sedevano poscia in quel temuto consesso, che per meritare il nome di senato di principi, meglio assai che non fu detto il romano senato di numi, mandava le proprie figlie a nozze reali. Le nazioni tutte inviavano volontarii tributi alla cortese visitatrice