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arrischiarmi a parlare di cose a me sconosciute. Se non che mi pareva avervi tra le arti tutte certa strettissima connessità, per cui non impossibile fosse per via di generali principii dallo studio di alcuna di esse dedotti, farsi a discorrere convenientemente dell’altre, che solo a certo punto, dopo aver camminato, come a dire, abbracciate e in comunione di leggi, divergono, qual per una, qual per altra parte, nella applicazione individuale. Fu questo il pensiero che dalla oscurità della stanza mi confortò di condurre per lo splendore di queste sale la mia orazione, a provare anch’io la non frequente dolcezza di rendere al vero nella presenza di molti aperta e solenne testimonianza. Parlerò adunque delle arti non come artista ad artisti, chè allora vorrei piuttosto qui sedermi ascoltatore, ma come uomo che, fatta conserva nella mente di quelle immutabili norme da cui non sa pervertir la natura, nè può deviar chi l’imita, e caldo l’anima di quegli affetti che vigorosi e spontanei germogliano in ogni cuore gentile, sa di aver uditori in cui sono non meno radicate quelle norme, e non meno vividi quegli affetti; di che non tanto forse pomposo, ma certamente più ingenuo potrò sperare abbia ad essere il mio discorso. E poichè vuole costume che un qualcheduno dei grandi maestri della veneta scuola riceva in questo giorno particolar lode, mi fermerò a favellarvi di Vittore Carpaccio, rimasto finora escluso dal novero de’ lodati negli anni decorsi.