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iv - sonetti vari | 147 |
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INFORTUNIO SOPRAGGIUNTO
Ventiquattr’anni avea quella gentile,
e ne’ begli occhi e negli allegri panni
fu mia la dolce violetta umile,
nelle allegrezze mia, mia negli affanni;
ma una súbita errò fiamma sottile
sull’egro viso, e luron certi i danni.
Aimè! le zolle del fiorente aprile
rompersi e seppellir ventiquattr’anni!
Aimè! in quell’ora i guardi e le improvvise
gioie, e i dubbi e i silenzi, e la fuggita
speranza, e allor quel resoluto e forte
addio dell’alme, che un sol giorno assise
festeggiano al banchetto della vita...
e di fuori picchiar senton la morte!
7
A DIO
Dio, sol re della terra, alle tue tende
sempre del mio pensier l’ali son tratte,
e in te creilo, e nel ver che da te splende,
contra cui tanta cecitá combatte.
S’anco alla porta mia picchiano ratte
le inique sorti, il cor non se ne offende,
e te voglio cantar (sinché dislatte
mi sien le membra) e ’l ver ch’entro m’accende.
La queta solitudine dei boschi,
l’aere stellato e il mar senza confine
mi parlano di te, Dio forte e grande;
ma piú quest’alma, che sorvola ai foschi
casi, ai tempi crudeli, alle ruine
del mondo, e in canti e lacrime si spande.