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un grigio plumbeo ed uniforme avea fatto una discesa sulla terra; esso nascondeva le cime dei monti i quali parevano un altipiano fuggente in una linea retta senza soluzione di continuità, tracciata per il passaggio di un convoglio ferroviario. Più in giù di quell’immensa coperta bianca, erravano, squarciandosi alle cime arruffate dei pini, alcune nuvole vaporose che mutavano forma ad ogni minuto secondo, fiocchi di soffice cotone dispersi da un ventilabro invisibile. Aveva piovuto certo buona parte della notte; ogni foglia, ogni virgulto era una conca piena di goccie che ad una ad una, a intervalli uguali, faceano capolino all’orlo, si allungavano in forma di pere, staccavansi e precipitavano. Quelle migliaia e migliaia di stille facevano un rumor sottile, indefesso, impercettibile quasi, e che non ha nome nel vocabolario di nessuna lingua, Ora, pioveva ancora; ma, per accorgersene, era necessario affissar lo sguardo su qualche cosa di oscuro. Le fronde pendevano immote; pure, di tratto in tratto, un alito leggiero di vento le scoteva mollemente; ciò ricorda quei respiri più lunghi del solito che sollevano a distanza di parecchi minuti il petto di chi dorme dopo una buona digestione, e che sembrano uscire per attestar che la vita palpita tuttavia sotto la completa immobilità. I passeri aggruppati in crocchi malinconici si scambiavano dalle folte macchie degli onici il loro cicaleccio di semicrome e di semiminime affastellate, ma senza brio, senza vivacità, come per non tradir l’abitudine; e la rondine volava dalla campagna alla gronda, spossata, a malincuore, come un impiegato che vada all’ufficio col dolor di capo.

Giungeva dalle convalli il belato lamentevole delle capre e degli agnelli in collera col trifoglio bagnato;