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una volta diviso dalla sua rozza, quell’uomo presentava un aspetto le mille miglia lontano dal ricordare l’eroe di Cervantes.

Calvo come un ginocchio, con due sole ciocche di capelli grigi, nascenti poco più in su delle orecchie e cadenti su quelle come due pezzuole bagnate, pareva che egli illuminasse gli oggetti intorno a sè col raggio della fronte vastissima nella quale le protuberanze che accusano l’istinto della meditazione assumevano quasi le proporzioni di una difettuosità. I suoi occhi nerissimi sembravano voler far dei pertugi nelle pareti; portava due baffi grigi anch’essi, folti e corti, e un pizzo quasi bianco del tutto, lunghissimo e aguzzo come un’ala di rondine. Vestiva semplicemente: ma in quella semplicità traspariva alcunchè di ricercato che tradiva la presenza di una donna amorosa alla sua toletta. Era un gentiluomo campagnuolo sotto le spoglie di un discepolo di Esculapio.

— Sono intirizzito, Baccio, e poichè Don Luigi dorme ancora, una fiammata mi farebbe bene.

— Subito, rispose il campanaro, ma prima vado a mettere in stalla quella povera bestia che è là fuori. La conosco da un pezzo; se le rientra il sudore la vi ha la tosse per quindici giorni.

Il dottore lo lasciò uscire, e, senza darsi pensiero alcuno di quella strana precedenza data alla sua bestia da Baccio, andò ai fornelli, ne tolse di sotto una fascina, la gettò sul fuoco e, voltogli il dorso, e spalancate le gambe, prese di buon grado la tazza di vino presentatagli da Bazzetta.

Il quale, passandomi vicino, mi gettò all’orecchio queste parole: