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profondo e malato, bizzarro e delicatissimo; ne ingarbugliava l’intreccio, poi, stanco, l’abbandonava ancora. S’illudeva sempre di arrivare al fine e non l’avrebbe forse finito mai. Quando mancò, era appena alla metà.

Il Pungolo dovendo finalmente pubblicarlo, il Direttore Leone Fortis, amico di Praga e mio, propose a me di finirlo. Non potei dirgli di no, ma l’impresa mi sgomentava. Il meglio dell’opera stava nelle delicatezze di sentimento e di forma, in quel particolare profumo di poesia e di affetto che Emilio solo possedeva. L’intreccio poi era una disperazione, una matassa arruffata donde non usciva alcun filo buono. Fu allora ch’io ti pregai di rileggere il manoscritto, e tu, più pronto ed immaginoso di me, cavasti in una notte quel filo ch’io disperavo trovare. La tua soluzione io ho adottato esattamente nella catastrofe del romanzo. Una sola cosa ci ho messo di mio, od almeno mi sono sforzato di metterci, ed è il ricordo dell’amico nostro, ch’io mi studiai di riprodurre, come l’avevo vivo davanti gli occhi, nella figura, nei discorsi, e nelle digressioni del protagonista Emilio.

Queste cose tu le sai, ma, se permetti, le ripeto qui, in fronte, licenziando il libro che l’amico Casanova volle ristampare tutto intiero, perchè le sappia anche il lettore. Io devo prima di tutto aver riguardo al nostro povero amico, perchè la gente non gli faccia colpa di peccati non suoi; poi mi