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girando da un pascolo all’altro, da questo a quel bosco, calzato di due enormi stivali, che in paese erano proverbiali, e armato di un alto e grosso bastone le cui solide proprietà non erano ignote a nessuno dei suoi pastori e dei suoi coloni, compresi i vecchi, le donne, e i fanciulli. Alla sera, giocava a tresette all’osteria, trincando come un bufalo, bestemmiando come un vetturale, pallido se vinceva, scarlatto se la fortuna gli voltava le spalle, arcigno, beffardo, arrabbiato sempre. Sua moglie era una donna piccina e grassotta, di un biondo cinereo, con una pelle la cui floscidità appariva più che mai nelle palpebre, le quali non potevano star sollevate un minuto secondo, talchè chi non la conosceva poteva credere ch’ella fosse cieca o avesse il dono di camminare ad occhi chiusi.

Del resto, essere passivo e inconcludente, errava per la casa, dal solaio alla cantina, accusando flemmaticamente e inappuntabilmente ad ogni bisogno, colla regolarità di un pendolo, come un sonnambulo, come un automa. Non si capiva come quella cosa avesse potuto procreare due volte. Giacchè il signor Angelo aveva avuto un fratello. È vero che costui — vivo, pochi lo avevano veduto, morto, nessuno ne osava parlare... almeno in publico. Era il secondo genito e pare che la sua venuta al mondo non avesse gran fatto garbato all’autore dei suoi giorni. Le dicerie andavano più in là: si mormorava che l’infelice avesse dovuto accorgersi allo sbaglio fatto nascendo, appena uscito di fascie. Fu il cane della casa; cane a tal punto che un bel giorno, (l’infelice contava allora quattr’anni) un calcio paterno nel ventre lo aveva messo a filo di vita. D’allor in poi la rachitide